La perfezione non esiste, ha ragione Vanessa Incontrada. Anche se di anni ce ne ha messi tanti per capirlo, e per riuscire a fare la pace con se stessa, il proprio corpo e le proprie contraddizioni. Come si fa d’altronde a smettere di cercare di essere perfetti in un mondo in cui facciamo tutti fatica a essere accettati e riconosciuti per quello che siamo, e in cui sin da piccoli non si fa altro che sentirsi ripetere che basta impegnarsi per cambiare, migliorare, e superare difetti e imperfezioni?
La storia di Vanessa, in fondo, è la storia di molti di noi. Cresciuti a “pane e volontà”, con la convinzione di dover sempre e comunque assumerci la responsabilità non solo del nostro agire, ma anche del nostro essere. Un’idea profondamente radicata nella società contemporanea, nonostante si tratti di un’idea del tutto falsa. Perché non è vero che “basta volere per potere”; non è vero che, sforzandosi, si riesce a controllare tutto; non è vero che solo i mediocri si accontentano di ciò che sono. Anzi. È vero esattamente il contrario: ci vuole tantissima forza per smettere di voler meritare l’amore e il successo, e accedere alla consapevolezza del proprio valore indipendentemente dallo sguardo giudicante altrui. Tanto né l’amore né il successo dipendono da noi. Esattamente come non dipendono da noi tante cose che nella vita accadono – la malattia, l’incidente, la morte, la perdita di una persona cara – oppure non accadono mai – una famiglia, i figli, gli amici. E quando si passa la propria esistenza a cercare di conformarsi alle aspettative degli altri, si rischia solo di passare accanto all’essenziale. Non ci si riconosce, non ci si accetta, ci si sente in colpa per non essere mai “abbastanza”. Mentre basterebbe anche solo un minimo di onestà da parte di chi educa, o pretende di essere un esempio da seguire, per farci capire che nessuno “è” (o “ha”) tutto quello ce vorrebbe essere (o avere), e che ognuno è sempre “meno”: meno bello, meno intelligente, meno sensibile, meno spiritoso, meno brillante, meno ironico, meno alto, meno magro. E che, però, è proprio in quel “meno” che si cela la nostra specificità e la nostra unicità. “Sono stanco”, “non ce l’ho fatta”, “non ho voglia”, “non ci riesco”: perché è così difficile da riconoscere o da dire? Perché c’è sempre chi si erige a giudice della riuscita altrui spiegando come basti fare uno sforzo, un semplice sforzo, un atto di volontà, una cosa banale, in fondo, un nulla, per essere e diventare e ottenere e avere?
Il problema del mito della perfezione – perché è un mito, nient’altro che un banale e maledetto mito – è la negazione della vulnerabilità e della fragilità della condizione umana. E quindi la cancellazione della realtà, ossia di tutto ciò che ci caratterizza. È perché siamo fragili e imperfetti che possiamo attraversare l’esistenza entrando in risonanza con gli altri e sentendo sulla propria carne la vulnerabilità altrui. È perché siamo fragili e imperfetti che possiamo incontrare colui o colei che ci aiuterà ad attraversare i nostri vuoti, senza pretendere che i vuoti si colmino o che l’altra persona sia esattamente come vorremmo che fosse. Tanto nemmeno noi siamo esattamente come gli altri vorrebbero che fossimo, e in fondo va bene così, perché è proprio nell’imperfezione che ci si trova e ci si riconosce. Nessuno è perfetto, esattamente come nessuno è sbagliato. E sono proprio le nostre imperfezioni, le nostre fratture, le nostre contraddizioni e i nostri difetti che possono diventare – una volta accolti – un punto di forza. Rivelandoci quell’autenticità del nostro essere, che continua invece a sfuggirci finché ci incaponiamo a illuderci che, un giorno, riusciremo a essere perfetti.